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Quello che c’è e non c’è nel Mezzogiorno

29 Dicembre 20154 min read

In questi giorni è tornata in auge la questione meridionale. E questa è già una notizia.

Ernesto Galli della Loggia, in un articolo comparso lo scorso 21 dicembre sul Corriere della Sera, si esprimeva in questi termini: “Mi chiedo se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell’Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese, se ha mai visto il raccolta firme false cooperativeterrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo, se ha mai dato un’occhiata all’ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O magari per avere un esempio, ha provato a farsi fare una tac in un ospedale calabrese. L’addio al Mezzogiorno, prima che culturale è stato ideologico e politico”.
Un articolo che ha portato alle risposte più o meno diverse nei contenuti di Stefania Covello, deputata del Pd sull’Unità, e di Eugenio Scalfari, storico giornalista del Gruppo l’Espresso su Repubblica.

All’articolo di Covello dal titolo “Il governo e il Sud che c’è” ha risposto Scalfari con un pezzo dal titolo “Il Mezzogiorno è povero ma c’è. Il governo invece non c’è“.
Non mi addentrerò a commentare il contenuto dei tre articoli in questione, i quali tra l’altro hanno più aspetti in comune di quanto si possa pensare.
Uno di questi è lo spirito quasi compassionevole che accompagna i protagonisti, che siano giornalisti, politici o tecnici, ogni volta che viene affrontata una discussione sull’arretratezza del Mezzogiorno e che vengono programmate (poche volte a dire il vero) politiche di sviluppo.

Se c’è una cosa di cui non ha bisogno il Sud è certamente di una discussione sterile sulle scelte del Governo. Un dibattito di questo tipo si ferma all’aspetto politico della questione senza entrare nel merito.
Uno degli elementi principali, invece, dell’arretratezza del Mezzogiorno è proprio il convincimento tra i suoi abitanti (il più delle volte basato su una realtà concreta) che lo Stato sia lontano e che non abbia alcun interesse nell’investire e nell’aiutare il Sud.
Spinti dall’impossibilità di cambiare le cose, perché le istituzioni sono e rimarranno lontane e la mafia (ahimè) è e rimarrà vicina, le migliori intelligenze decidono di emigrare da altre parti d’Italia oppure all’estero, convinte che lì qualche speranza di successo possano averla.

Ecco allora, se c’è qualcosa di cui ha bisogno il Sud, non sono gli aiuti di Stato, ma la creazione di un reale contesto di mercato, dove la rendita e l’assistenzialismo vengano combattute in maniera aspra in luogo di una competizione sana.  L’epoca dei finanziamenti a pioggia non ha fatto altro che cambiare i meccanismi di rendita, rivoluzionandoli nella forma ma non nei contenuti.
Il vecchio latifondista è diventato il politico, l’imprenditore o l’uomo del Terzo Settore di turno, che grazie ad una rete di scambi di voti e di favori riesce ad ottenere un finanziamento pubblico, senza mai innovare o più semplicemente senza mai operare per il proprio territorio.
Il Mezzogiorno non ha bisogno, dunque, di finanziamenti a fondo perduto, ma di regole chiare e di amministratori locali illuminati, capaci di uscire dalla logiche clientelari e di entrare in circuiti innovativi.
Il primo passo deve essere necessariamente questo per sradicare il pessimismo cronico che affligge chi è nato al Sud e dal Sud ha deciso di scappare.

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