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Numeri e prospettive delle imprese sociali in Italia

4 Luglio 20164 min read

Il decreto legislativo n.155 del 2006 introduceva per la prima volta in Italia il concetto di impresa sociale. 

Venivano considerate come tali “tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale, e che hanno i requisiti di cui agli articoli 2, 3 e 4″.
impresa-socialeTra i requisiti richiesti c’era la produzione di beni e servizi di utilità sociale nei campi come l’assistenza sociale e sanitaria, il turismo sociale, la valorizzazione del patrimonio culturale, l’educazione, ecc. e che abbiano come fine l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
Un altro degli elementi cardine delle imprese sociali, in base al precedente quadro normativo, era l’assenza dello scopo di lucro ragion per cui era “vietata la distribuzione, anche in forma indiretta, di utili e avanzi di gestione, comunque denominati, nonché fondi e riserve in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori“.
Proprio il divieto assoluto di redistribuire gli utili è stata la principale ragione di fallimento del decreto. Da quando è stata introdotta la nuova legge, infatti, sono nate solo poco più di 700 imprese sociali.

Per rendere maggiormente attraente l’ecosistema dell’innovazione sociale il Governo ha deciso di ridefinire i contorni di questa forma d’impresa all’interno della riforma del Terzo Settore.
L’articolo 6 del suddetto decreto definisce come impresa sociale “un’organizzazione privata che svolge attività d’impresa per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale  e destina i propri utili prioritariamente al conseguimento dell’oggetto sociale, adotta modalità di gestione responsabili e trasparenti, favorisce il più ampio coinvolgimento dei dipendenti, degli utenti e di tutti i soggetti interessati alle sue attività e quindi rientra a pieno titolo nel complesso degli enti del Terzo settore”.

In generale la legge amplia ampliato il novero di soggetti che possono essere considerati imprese sociali nel momento in cui prevede “forme di remunerazione del capitale sociale che assicurino la prevalente destinazione degli utili al conseguimento dell’oggetto sociale, da assoggettare a condizioni e comunque nei limiti massimi previsti per le cooperative a mutualità prevalente“. In questo modo, dunque, le imprese sociali vengono assimilate in un certo senso alle cooperative mutualistiche, consentendo loro anche l’accesso a forme di capitale di rischio.
Un’impresa sociale, dunque, potrà redistribuire parte del capitale e non solamente investire risorse per il raggiungimento degli obiettivi posti nello statuto. L’intento dell’esecutivo è far crescere un settore sempre più prolifico in tutta Europa. La crisi del welfare state rende necessario un intervento del privato per la produzione di beni e servizi di natura assistenziale; ci sono, inoltre, altri ambiti emergenti come quello dell’agricoltura sociale o del turismo sociale che danno la possibilità a diversi giovani imprenditori di cimentarsi in attività imprenditoriali dal forte impatto sociale ed ambientale.
Come riportato oggi dal Corriere Sociale, oggi in Italia ci sono 61.776 imprese sociali ma il potenziale è di gran lunga superiore. Esistono, infatti, più di 80.000 organizzazioni non profit che potrebbero tramutarsi in imprese sociali ed attrarre investitori stranieri.
Non è un caso negli ultimi mesi siano aumentati i bandi rivolti alle startup sociali, con il coinvolgimento di diverse fondazioni, istituti bancari ed acceleratori. Gli operatori del sistema delle startup italiane si stanno in via definitiva orientando verso l’ambito dell’innovazione sociale ed il nuovo quadro legislativo non potrà che rendere sempre più conveniente operare in questo campo.

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