Per iniziare ci puoi spiegare cos’è Oasi Project? E cos’è il maglificio 100Quindici Passi?
Oasi Project è una cooperativa sociale nata nel 2009, gemmata da un’altra cooperativa sociale per dare l’opportunità ad una bottega equo-solidale di mantenere la sua attività ad Avellino, dove era presente da quasi dieci anni, e nella prospettiva di lavorare per il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Quest’opportunità è arrivata nel 2013, quando una villa bunker è stata affidata alla cooperativa per la realizzazione del progetto 100Quindici Passi.
Quindi il maglificio si trova su un bene confiscato, ex villa bunker, nel Vallo di Lauro se non mi sbaglio.
Sì, nel Vallo di Lauro, nel comune di Quindici, è una villa che era un’abitazione privata e che è stata riconvertita totalmente in un impianto produttivo.
È uno dei primissimi esperimenti di attività produttiva di questo tipo su un bene confiscato, in genere vengono realizzate imprese di tipo agricolo o agroalimentare.
Sì, soprattutto perché è la prima volta, o comunque uno dei rarissimi casi, in cui un’abitazione privata diventa un impianto produttivo. Di solito sono le aziende che vengono riconvertite e quindi riportate a produzione o sono terreni dove la strada è già indicata. Questa volta si tratta di una casa, quindi con le stanze da letto, la cucina, il seminterrato, è stata letteralmente riconvertita. Nel seminterrato c’è la sala dedicata alle produzioni tessili, al piano terra c’è la sala confezioni ed al primo piano gli uffici amministrativi.
E come mai la scelta è ricaduta proprio su un maglificio? Cosa vi ha portati a scegliere questa specifica attività?
abbiamo preferito riportare questa tradizione sul locale, cercando di realizzare un progetto non soltanto di inserimento lavorativo, ma anche un progetto di alta qualità.
Era una tradizione della zona, prima che arrivasse la crisi e prima che la produzione venisse delocalizzata soprattutto in Asia ed altre zone dell’est europeo. Noi, invece, abbiamo preferito riportare questa tradizione sul locale, cercando di realizzare un progetto non soltanto di inserimento lavorativo, ma anche un progetto di alta qualità.
Quali sono state le difficoltà nell’intraprendere questo percorso, quello che vi ha portati dall’inizio fino alla costituzione del maglificio? Sia da un punto di vista prettamente tecnico e amministrativo, sia da un punto di vista territoriale.
Le prime difficoltà sono certamente quelle di tipo burocratico, molto spesso i comuni non hanno confidenza con questo tipo di procedure di burocrazia. Infatti dalla confisca della villa, avvenuta nel 2009, al 2011, quando è stata liberata, abbiamo dovuto aspettare fino al 2013 perché venisse affidata. Questo ovviamente ha fatto sì che la struttura, durante gli anni, perdesse quello che era il suo valore e avesse bisogno di maggiori interventi strutturali per farla ripartire. Altre difficoltà sono quelle legate alla diffidenza che c’è molto spesso in territori dove la presenza criminale è molto forte. Diffidenza legata alla natura del bene confiscato come era prima della confisca. Quindi la capacità di far perdere consenso sociale alle organizzazioni criminali e farlo guadagnare alle cooperative o alle associazioni che riutilizzano questi beni. Durante la procedura di riconversione del bene ci sono stati ritardi legati a fonti di finanziamento piuttosto che alla ricerca, appunto, di prestiti o di finanziamenti con le banche. Tutta una serie di ritardi che vanno ad aggiungersi ma che per fortuna poco alla volta vengono superati.
Dicevi che la percezione da parte della comunità circostante era, inizialmente, di diffidenza. È cambiato qualcosa da quando ci si è riappropriati del bene confiscato, da quando la comunità si è riappropriata del bene e quindi poi la cooperativa è subentrata?
Diciamo che il lavoro è iniziato molto prima che si potesse avere un’idea di riconversione sociale di quel bene confiscato e questo ha sicuramente aiutato. L’animazione sociale svolta dall’associazione Libera in rete con le altre associazioni del territorio ha fatto sì che ci fosse una richiesta di legalità sempre più emergente da parte della comunità locale. Il fatto che venissero ogni anno i volontari dei campi di volontariato “Estate Liberi” ha dato la percezione che c’era qualcuno che di quel bene confiscato si stava iniziando ad occupare. L’apertura durante iniziative culturali o piuttosto portare le scuole a far vedere quel posto ha fatto sì che, un po’ alla vola, la comunità locale si aprisse. Questo è, ovviamente, un lavoro ancora in divenire e sicuramente c’è ancora tanto lavoro da fare.
Come abbiamo detto Oasi Project è una cooperativa, come mai avete scelto la forma cooperativa come forma d’impresa?
Fondamentalmente perché la immaginavamo proprio come lo sviluppo di un sogno collettivo, attorno al quale c’era, ovviamente, un nucleo di partenza, ma si sono aggregate anche altre persone. Poi c’era la volontà di fare un progetto che potesse essere, comunque, complessivo. Da un lato impiegare in questo progetto delle persone, persone del territorio, disoccupati, persone che, in un certo qual modo, avevano perso la speranza, così come l’aveva persa quel luogo. Contemporaneamente reimpiegare soggetti svantaggiati ma creare anche delle opportunità sempre crescenti. Quindi da un lato i volontari che hanno dato l’opportunità alla cooperativa e quelli che sono diventati soci della cooperativa di fare il proprio lavoro, di costruire il proprio sogno e dall’altro la grande responsabilità dei soci lavoratori della cooperativa di generare quanto prima opportunità per altri. La scuola di arti e di mestieri che vogliamo aprire in quel posto è solo uno dei piccoli segni che consentirà di generare ulteriori occasioni per le persone del territorio.
Quali consigli ti sentiresti di dare a dei giovani che intendono intraprendere la stessa strada dal punto di vista della riappropriazione da parte della comunità di un bene confiscato sia dal punto di vista della cooperativa?
Questa è la grande forza della cooperazione, oltre ad essere in tanti ad inseguire un sogno e quindi ad essere tutti, più che imprenditori di sé stessi, a lavoro per un bene comune e soprattutto per un sogno collettivo.
Sicuramente una delle cose più importanti è fare rete. Noi abbiamo avuto al nostro fianco davvero tanti soggetti. Siamo iscritti a Confcooperative ed è una realtà che ci siamo trovati al fianco, così come Libera, Banca Etica, la Fondazione con il Sud, che è stata l’organizzazione principale che ha permesso che questo sogno potesse avverarsi, la cooperativa Oasi Project ha vinto il bando per la riconversione dei beni confiscati, e soprattutto quella rete locale che è necessaria per far sì che ci possa essere effettivamente un grande consenso sociale attorno a questo bene. Poi anche i soggetti istituzionali: il Comune, la Prefettura, le Forze Dell’Ordine, perché tutti devono fare squadra attorno a queste realtà. Un altro consiglio è quello di avere un’idea non solo forte ed efficace ma soprattutto ad alto tasso innovativo, altrimenti è facile “pestarsi i piedi” con altre realtà che fanno cose simili. Invece molto spesso si possono trovare alleati in realtà che fanno cose simili ma leggermente diverse. Questa è la grande forza della cooperazione, oltre ad essere in tanti ad inseguire un sogno e quindi ad essere tutti, più che imprenditori di sé stessi, a lavoro per un bene comune e soprattutto per un sogno collettivo. Questo poi, effettivamente, genera benessere non solo per sé stessi ma anche per il territorio.
Un’ultima domanda. Durante questa lunga strada avrete sicuramente incontrato delle difficoltà, cosa vi ha spinto a superare queste difficoltà?
non esiste un’alternativa, non si può arretrare in un progetto che era già in fase avanzata. Ma non saremmo arretrati nemmeno se fossimo stati in una fase preliminare. Questo è l’unico modo attraverso cui, non soltanto i soci lavoratori possono dare il proprio contributo, ma attraverso cui si riescono a liberare, non solo i beni, ma interi territori dalle mafie.
Forse la difficoltà più grande, quella che riassume anche un po’ tutto lo spirito di quest’iniziativa, c’è stata il giorno prima dell’inaugurazione, il 20 ottobre. Uno dei soci lavoratori, andando ad aprire il bene confiscato, ha trovato cinque colpi di fucile sul portone. Ci hanno dato, insomma, il benvenuto. Ci hanno ricordato che quella non è una struttura normale. Davanti a un’iniziale momento di scoraggiamento ci siamo guardati un po’ tutti e ci siamo detti: qual è l’alternativa? E la verità è che non esiste un’alternativa, non si può arretrare in un progetto che era già in fase avanzata. Ma non saremmo arretrati nemmeno se fossimo stati in una fase preliminare. Questo è l’unico modo attraverso cui, non soltanto i soci lavoratori possono dare il proprio contributo, ma attraverso cui si riescono a liberare, non solo i beni, ma interi territori dalle mafie.
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