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Categorie protette: risorse o costi per le imprese?

13 Gennaio 20152 min read

I lavoratori appartenenti alle “categorie protette” rappresentano una questione delicata per le imprese italiane. Un articolo pubblicato sull’edizione odierna del Corriere della Sera analizza la loro situazione, mostrando dati e tendenze in merito al loro impiego.
Secondo un’indagine svolta da Gidp, circa l’80% delle “categorie protette” risulta disoccupato, un quota che colloca l’Italia sopra la media dei paesi industrializzati, dove la percentuale di disoccupazione varia dal 50% al 70%.

downloadLa legge 68/1999 disciplina nel dettaglio cosa s’intende per “categoria protetta” e quali soggetti rientrano in questa fattispecie. Tra di essi la normativa annovera invalidi civili e del lavoro, non vedenti, non udenti, ma anche orfani e coniugi di coloro che sono deceduti per cause di lavoro.
Per loro è prevista l’iscrizione in liste di collocamento obbligatorio ed agevolazioni fiscali per le imprese che decidono di assumerli. Le realtà produttive italiane potrebbero, dunque, trarre giovamento dal collocamento di tali soggetti, riducendo i costi e massimizzando i profitti, soprattutto in periodo di recessione. Nonostante ciò, il numero di lavoratori appartenenti alle categorie protette è ancora molto limitato.

Le aziende ritengono siano ancora maggiori i costi rispetto ai benefici: secondo molti imprenditori rallenterebbero l’attività produttiva, impedendo all’impresa di aumentare fatturato e produttività.
In realtà si tratta il più delle volte di semplici pregiudizi. Bisogna semplicemente sfruttare le risorse che le “categorie protette” possono dare ad un’azienda, senza pensare che il loro compito possa essere necessariamente limitato.
La responsabilizzazione di un lavoratore porta sempre dei vantaggi, qualsiasi sia la categoria in questione.
I dati forniti dall’Organizzazione Internazionale per il lavoro ci dicono che l’Italia può e deve fare di più anche in questo settore, visto che il mancato collocamento di questo tipo di lavoratori può comportare addirittura una perdita economica stimabile tra l’1 ed il 7% del Pil mondiale.

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